lunedì 28 novembre 2011

Giornata mondiale contro la violenza sulle donne e non solo


“Tre costole rotte, due denti mancanti e cinque bruciature di sigarette sulle gambe”. Questo il sottotitolo di un viso luminoso di un’ apparentemente splendida donna. “La violenza non è sempre visibile”. Questo, a continuare, lo slogan del manifesto vincitore della campagna stampa realizzata in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, del 25 novembre 2011.
La violenza è qualcosa che non sempre è visibile. Esiste e permea gli Stati tutti, non guarda in faccia al benessere, alla cultura, all’erudizione. Esiste e si cela tra le mura di casa, nei vicoli delle strade, nelle macchine, ma non solo. Esiste e si cela in posti ancor più piccoli. Nella gola di chi non riesce a denunciare, a parlare. Nella mente di chi continua a rivivere la violenza subita, ogni giorno. Negli occhi che guardano basso, perché cosa c’è dopo ancora non riescono ad immaginarlo, sono occhi che guardano sempre indietro. Occhi di una donna su tre, come ci fa sapere l’Istat, che nella sua vita è stata colpita dalla violenza di un uomo. Fisica, psicologica, verbale, fino ad arrivare alla più recentemente riconosciuta “violenza di perseguitazione”: lo stalking, forma ad oggi sempre più diffusa di violenza in quanto tende a perdurare anche a seguito di una denuncia.
“Tre costole rotte, due denti mancanti e cinque bruciature di sigarette sulle gambe”. Questi i danni che non si vedono in volto ma che calpestano il corpo di una donna, oltre ai danni indiretti che le attraversano lo spirito. Sono infatti moltissime le donne, secondo i dati della ricerca “Daphne III: Violenza sulle donne, danno indiretto” che avendo subito violenza, o avendola vissuta in famiglia da bambine, negano a se stesse il desiderio di costruire una coppia orientata alla formazione di una famiglia. E non solo, parlando di violenza, la psicologa Maria Rita Parsi, tratta anche quella che oltre alle donne, sono gli uomini a subire, spesso da donne che sono state loro stesse prime vittime di violenza e che infliggono, nella maggioranza, ai propri figli maschi facendoli diventare la propria arma di riscatto e pretendendo da loro che facciano qualcosa per loro in quanto madri, dal momento che credono che loro stesse non possono fare nulla per se stesse.

Saranno molte e varie le manifestazioni che in questa giornata mondiale contro la violenza sulle donne si terranno in tutto il mondo. Una giornata che potrebbe essere l’occasione per riflettere sul significato di violenza, che subita dalle donne riguarda in realtà ogni essere umano.



Perché non succeda più.



Laura Grassi

Undici Undici


Bacio. Kiss. Baiser. Kuss. Oppure ancora, X, corrucciare le labbra, :*, strofinarsi i nasi. Tanti modi diversi per dire la stessa cosa. Una cosa che conosciamo tutti. Il gesto che ci segna fin dalla nascita: un bacio.


Oltre a questo tantissimi altri gesti, tantissime altre parole universalmente diffuse possono essere definite in molteplici modi.

Ogni esperienza infatti, che possiamo chiamare “territorio”, può essere interpretabile da ognuno di noi secondo la propria “mappa”. Per uno stesso territorio, possono esserci tante mappe diverse quante diverse interpretazioni che ognuno ha dato a una stessa esperienza.

Pensiamo concretamente a un territorio geografico, a una collocazione spaziale da dover raggiungere. C’è chi per farlo userà un navigatore , chi indicazioni schizzate a penna su un foglio di carta, chi le parole date da un passante incontrato lungo la strada e chi a mente cercherà di ricordare il percorso. Tutte queste sono diverse possibili mappe. Diverse mappe per lo stesso territorio, ognuna per ciascuna persona. Una mappa costruita negli anni, a seconda di quello che ciascuno ha imparato e provato. Per un territorio lavorativo qualcuno potrà leggere sulla sua mappa, soddisfazione, appagamento. Qualcun altro frustrazione. Così il “vado a lavoro” sarà seguito da un sorriso per qualcuno e da un leggero mal di stomaco per qualcun altro.

Ma cosa succede se due mappe diverse si trovano a interpretare uno stesso territorio? Cosa succede se due collaboratori, due amanti, due amici, due compagni di squadra, si trovano a confrontarsi su una stessa esperienza? Succederà che più le loro mappe saranno simili, più sarà facile per loro capirsi, comprendersi, essere d’accordo. Ma potrebbe succedere qualcosa di ancora meglio. Potrebbe succedere che le loro mappe siano molto diverse. Da due mappe uguali, si ricaverebbe sempre lo stesso numero di informazioni, ma due mappe diverse, due modi diversi di interpretare un’esperienza potrebbero dare l’opportunità a ciascuno di arricchire le proprie informazioni e di aggiungere dettagli alla propria mappa. Certo, bisognerebbe mettersi a tavolino, con le mappe o menti aperte che siano e raccontarsi come ognuno interpreta uno stesso territorio. Bisognerebbe prendere delle matite, dei pennarelli, dei pastelli o gesti che siano ed essere disposti a mettere dei nuovi segni sulla propria mappa, a cancellarne altri che si troveranno superati. E tutto questo, solo perché si ha avuto la fortuna di incontrare una mappa diversa, una persona diversa. E quando questo succede, è quasi sempre bene lasciare che le due persone si mischino le mappe tra di loro. Immaginate se arrivassero altre due, tre, quattro mappe a dire la loro! Ma alla fine della contaminazione tra mappe potrebbe accadere di trovarsi poi di fronte a un’esperienza comune come quella di un bacio. Bacio. Kiss. Baiser. Kuss. Oppure ancora, X, corrucciare le labbra, :*, strofinarsi i nasi. Tanti modi diversi per definire lo stesso territorio. E con una mappa così piena di informazioni, non potrà altro che essere un fantastico viaggio alla scoperta di tanti territori da interpretare…



Laura Grassi

La mappa delle esperienze

Bacio. Kiss. Baiser. Kuss. Oppure ancora, X, corrucciare le labbra, :*, strofinarsi i nasi. Tanti modi diversi per dire la stessa cosa. Una cosa che conosciamo tutti. Il gesto che ci segna fin dalla nascita: un bacio.


Oltre a questo tantissimi altri gesti, tantissime altre parole universalmente diffuse possono essere definite in molteplici modi.

Ogni esperienza infatti, che possiamo chiamare “territorio”, può essere interpretabile da ognuno di noi secondo la propria “mappa”. Per uno stesso territorio, possono esserci tante mappe diverse quante diverse interpretazioni che ognuno ha dato a una stessa esperienza.

Pensiamo concretamente a un territorio geografico, a una collocazione spaziale da dover raggiungere. C’è chi per farlo userà un navigatore , chi indicazioni schizzate a penna su un foglio di carta, chi le parole date da un passante incontrato lungo la strada e chi a mente cercherà di ricordare il percorso. Tutte queste sono diverse possibili mappe. Diverse mappe per lo stesso territorio, ognuna per ciascuna persona. Una mappa costruita negli anni, a seconda di quello che ciascuno ha imparato e provato. Per un territorio lavorativo qualcuno potrà leggere sulla sua mappa, soddisfazione, appagamento. Qualcun altro frustrazione. Così il “vado a lavoro” sarà seguito da un sorriso per qualcuno e da un leggero mal di stomaco per qualcun altro.

Ma cosa succede se due mappe diverse si trovano a interpretare uno stesso territorio? Cosa succede se due collaboratori, due amanti, due amici, due compagni di squadra, si trovano a confrontarsi su una stessa esperienza? Succederà che più le loro mappe saranno simili, più sarà facile per loro capirsi, comprendersi, essere d’accordo. Ma potrebbe succedere qualcosa di ancora meglio. Potrebbe succedere che le loro mappe siano molto diverse. Da due mappe uguali, si ricaverebbe sempre lo stesso numero di informazioni, ma due mappe diverse, due modi diversi di interpretare un’esperienza potrebbero dare l’opportunità a ciascuno di arricchire le proprie informazioni e di aggiungere dettagli alla propria mappa. Certo, bisognerebbe mettersi a tavolino, con le mappe o menti aperte che siano e raccontarsi come ognuno interpreta uno stesso territorio. Bisognerebbe prendere delle matite, dei pennarelli, dei pastelli o gesti che siano ed essere disposti a mettere dei nuovi segni sulla propria mappa, a cancellarne altri che si troveranno superati. E tutto questo, solo perché si ha avuto la fortuna di incontrare una mappa diversa, una persona diversa. E quando questo succede, è quasi sempre bene lasciare che le due persone si mischino le mappe tra di loro. Immaginate se arrivassero altre due, tre, quattro mappe a dire la loro! Ma alla fine della contaminazione tra mappe potrebbe accadere di trovarsi poi di fronte a un’esperienza comune come quella di un bacio. Bacio. Kiss. Baiser. Kuss. Oppure ancora, X, corrucciare le labbra, :*, strofinarsi i nasi. Tanti modi diversi per definire lo stesso territorio. E con una mappa così piena di informazioni, non potrà altro che essere un fantastico viaggio alla scoperta di tanti territori da interpretare…



Laura Grassi

La taglia 38 del vestito verde

Fine settimana. Spiaggia. Come miriadi di bagnanti, sdraiata sul mio lettino leggo un libro che trovo straordinario. L’autrice racconta la sua storia, un passato burrascoso, fatto di gioie e dolori, di coraggio e forza. E’ incredibile, penso. Sapere che ci sono persone dall’altra parte del mondo che hanno vissuto qualcosa di simile a te e che lo raccontano e che quando lo leggi vieni contagiato dal loro coraggio, dalla forza dei racconti, dalla condivisione di un’esperienza. Mi alzo e cammino sulla battigia. Ho la pettinatura della serata precedente, una treccia di capelli biondi. Nella fretta di arrivare al mare ho dimenticato di struccarmi. Il mio costume preso a caso dalla cesta dei panni puliti. Mi sento felice. Sto bene. Un ambulante passa. Vuole vendermi un pareo che si trasforma in vestito. Il suo colore verde. Sorrido, lo saluto andando oltre e come un’onda sulla riva, riaffiora un vecchio pensiero dentro me. Sono passati molti anni da quel giorno in quel camerino del negozio d’abbigliamento in centro. Io e un vestito verde da provare, visto in vetrina. Una taglia che non mi sarebbe mai entrata , se non in una decade precedente della mia vita. Un attimo e nella mia mente mille pensieri. “ Sono grassa, sono imperfetta, non sono bella abbastanza, è per questo che tutto sta andando a rotoli nella mia vita: la mia vita sentimentale, lo studio, i rapporti con la mia famiglia”. Dovevo entrare in quel vestito verde. Volevo la vita che avrei avuto se fossi entrata in quel vestito verde. Volevo la vita delle donne che entravano in quel vestito verde, taglia 38. Bisogna sempre stare attenti a ciò che si chiede, perché molto spesso si finisce per ottenerlo. Io lo ottenni di lì a poco, litigando con quei doni preziosi che servono a nutrirci. Il cibo era il mio nemico e gli avevo dichiarato guerra aperta. Lui la prese sul serio, e badò bene, nel giro di poco tempo di sdegnare il mio appetito, di tenersi alla larga dalla mia vista e di lasciarmi spazio per occuparmi dei miei primari interessi: bilancia e specchio. Bilancia pesava anche l’anima, unica a pesare qualcosa e specchio mi raccontava che non sembravo essere così felice come avrei dovuto essere ora che il vestito verde era così grande su di me, così come ogni altra cosa. E mai invece, mi ero sentita così triste e lontana da quello che avrei voluto essere. Mi perdonò. Il cibo mi perdonò. Io mi perdonai. Feci pace con ogni alimento e ogni lato del mio carattere semplicemente amandolo. Sparirono le bilance, gli specchi divennero indifferenti e la taglia dei miei vestiti divenne un bellissimo numero doppio. Sono passati così tanti anni e così tanti vestiti verdi da quel giorno, perché si, adesso se devo scegliere un abito, sicuramente sarà un vestito verde della taglia che mi và, o se ho passato troppe serate in compagnia di amici a gustare ogni ben di Dio, forse anche più grande. Amo i vestiti verdi che abbiano oltre un metro di stoffa, amo andare in giro per la città struccata, mettermi il primo costume che trovo, incrociare le gambe con sicuro effetto “buccia d’arancia” che mi sono guadagnata in lungo tempo di mediazione con ogni pietanza. Amo assaporare ogni cibo, lasciare che incontri il mio spirito come un vecchio amico. Cammino sulla battigia e penso a questo, agli anni, tantissimi che ormai sono passati da quel giorno. Penso al libro che ho appena iniziato a leggere e che racconta un’altra storia, di un’altra donna. Storia di pianti spesi sul pavimento della camera da letto, per rotture sentimentali. Un’altra storia che qualcuno ha avuto il coraggio di raccontare. Rincontro il venditore ambulante. Quel vestito verde è mio. Me lo regalo per onorare il mio corpo, il mio spirito e il mio coraggio. Sicuramente è una taglia a numero doppio. Sono felice. E mando questo pensiero a tutte le donne che pensano di non esserlo ancora.




Laura Grassi

mercoledì 29 giugno 2011

LASCIATI SORRIDERE

Non avere fretta. Passa tra il rumore e la corsa del mondo e fermati ad ascoltare il silenzio delle cose. Guarda. Oltre ciò che si vede, cerca di trovare l’essenza delle cose e non solo il loro aspetto. Non domandarti come sarebbe stato se le cose fossero andate in modo diverso. Questa è la tua vita, l’unica che hai. Impara. A vedere gli avvenimenti come motivo di insegnamento, non auto-commiserarti. Non cadere mai nei paragoni. Tu sei unico, diverso dagli altri e gli altri diversi da te. Non  opporti al dolore, ma accettalo, benedicilo e poi lascialo andare. Sii sempre te stesso. Questa vita è la tua occasione per mostrarti per come sei, non nasconderti, non fingere perché non c’è nessuna giusta ragione. Non avere paura di sbagliare. Qualsiasi scelta tu faccia sarà un disegno di vita. Ascolta, il tempo delle persone, ognuno il suo ritmo. Tratta con loro rispettando ciò che in   quel attimo sono e dai loro altro tempo, per capire, per capirsi. Non incolpare altri dei tuoi problemi. Domandati davanti ad ogni avversità come puoi trovare un motivo di crescita. Ricorda, che ogni avvenimento ha un suo significato, come un piccolo pezzo di puzzle che col tempo riuscirai a vedere. Impara, ad essere tutto ciò che desideri essere. Ma non tormentarti con l’immaginazione. Dai modo e tempo alle cose di accadere e a te di incontrale.  E nel lungo cammino che ti aspetta, ricorda che non sarai solo, ma tu, immerso nel mondo. Lasciati sorridere.

Laura Grassi
Good at life girls 2007

RICORDA


Ricorda di continuare. Non importa quanto ti sei fatto male, continua. Bendati il cuore con qualche parola e fallo tornare a battare, ancora una volta. Cadi e cadrai ancora, e quello che puoi imparare è come trovare l'equilibrio per non cadere o per cadere meno forte. Non fingere mai di essere qualcun'altro. Puoi essere solo te stesso perchè se non sai chi sei, come potrai trovarti riflesso in qualcun'altro? Libera, le idee, il tuo cuore, l'amore, non trattenerli dentro te ma lasciali andare. Sorridi più spesso. Impara a sentirti felice per quello che sei. Non aspettare, niente in cambio. Se l'avrai sarà un dono prezioso, qualcuno che ha capito chi e cosa sei. Non dipendere dalle emozioni di chi affidi il tuo cuore. A loro è dato sentirne il battito, avvicinarcisi piano, ma batte solo per volontà tua. Nessuno può fermarlo davvero. Non chiederti come sarà domani o se sarà come ieri. Vivi nel tempo presente. Gioisci di tutte le gioie del mondo e vivile intensamente. Non avere paura se non verrai compreso, ma non negare a te stesso di essere quel che sei. Non sentirti mai solo. Appoggia la mano sul cuore. Batte ancora, per chi c'è stato e per chi ci sarà, ma soprattutto per te stesso. Cercati e quando ti sarai trovato sorridi. E vivi, ricorda. Vivi.

Laura Grassi
Good at life girls 2007

venerdì 10 giugno 2011

Ogni volta che avete baciato, lo sapevate che....?

C’erano gli anni ’80 e i caldi pomeriggi d’estate in famiglia, quelli in cui tutti dormivano, in cui con l’aiuto complice del cugino coetaneo si sottraeva alla cugina maggiore, quella che ai tempi era considerata la Bibbia degli adolescenti: il Cioè. Noto settimanale sul quale vi si potevano leggere, tra un consiglio sul lucidalabbra migliore e le lettere indirizzate ai vip di turno, le più elaborate teorie e tecniche dei primi baci. Ovviamente muniti di mela alla mano che, vista l’ora pomeridiana, in caso di coglimento in flagrante da parte dei “grandi”, si poteva sempre facilmente spacciare come salutare merenda. Erano appunto gli anni ’80 e se con me, alcuni dei miei coetanei si approcciavano al primo bacio, eravamo tutti ben lontani dal conoscere la storia e i significati che nei secoli dei secoli il bacio aveva incarnato.

Gli storici ci fanno sapere che si possono rintracciare le prime forme di bacio sin nella preistoria, quando le prime mamme dopo l’allattamento usavano passare attraverso la bocca il cibo ridotto in piccole ai parti ai propri figli, i quali, sprovvisti di denti, sarebbero stati impossibilitati a nutrirsi. E da qui possiamo dedurne l’origine latina di basium, aprire la bocca appunto. Un baciarsi per dare, dunque.
Si arriva poi al medioevo quando i cavalieri di ritorno dalle battaglie erano soliti baciare le proprie mogli per verificare se queste avessero bevuto del vino, cosa allora proibita, in loro assenza. Un baciarsi per verificare un rispetto, dunque. Oltre che nel tempo, il bacio si è diffuso anche nei luoghi ed è ad oggi una forma praticata dal 90% della popolazione mondiale, anche se con significati diversi. Escludendo infatti il bacio con valenza prettamente erotica, solo il 50% della popolazione mondiale usa il bacio come forma di comunicazione. Escludendo ovviamente lo strofinarsi dei nasi tipico degli Eschimesi o il bacio simulato ma rigorosamente a debita distanza dei Giapponesi, i Russi erano soliti fino a qualche decennio fa salutarsi con un bacio sulle labbra, anche tra uomini e di baci simili ne troviamo testimonianza persino nella Divina Commedia, dove Dante viene baciato da Virgilio in un momento di forte emozione.
Questa traversata tra i secoli e gli spazi ci testimonia che il bacio è una delle forme di comunicazione prediletta per trasmettere affetto, fratellanza e comunione. E’ ciò che si manifesta appena incontriamo e appena lasciamo una persona cara, a testimonianza fisica di una condivisione. E’ anche però incarnazione di rispetto, come può esserlo il bacio mafioso o camorristico, scambiato tra membri di uno stesso clan a suggellare una condivisione di spregevoli intenti. Oppure anche di onorificenza, come il bacio accademico dato dal preside di facoltà al laureato con lode e pieni meriti. Oppure ancora, di cortesia come il baciamano, oggi in disuso, da parte dei galantuomini alle signore per evitare un contatto diretto che fosse poco rispettoso della persona. E da questa indagine non si esime anche la poco nota ma alquanto simpatica “Sindrome del Baciatore”, che consiste in una forzatura del collo inclinato a destra, come da posizione prediletta dalla maggior parte dei baciatori, questa volta, a comunicazione di ben altro che affetto.

E chissà se la prossima volta che vi ritroverete a baciare qualcuno, qualcuno di questi aneddoti vi passerà per la testa, oppure perché no, chissà se userete uno di questi aneddoti come ottima scusa per farvi baciare. Meglio comunque provarci ad ore pasti. Male che vada, vi resta sempre la mela.



Baci

Laura Grassi

da BIG KAKUNA (monologo)

Goditi potere e bellezza della tua gioventù. Non ci pensare.
Il potere di bellezza e gioventù lo capirai solo una volta appassite.

Ma credimi tra vent'anni guarderai quelle tue vecchie foto.

E in un modo che non puoi immaginare adesso.



Quante possibilità avevi di fronte

e che aspetto magnifico avevi!

Non eri per niente grasso come ti sembrava.



Non preoccuparti del futuro.

Oppure preoccupati ma sapendo che questo ti aiuta quanto masticare un chewing-gum per risolvere un'equazione algebrica.



I veri problemi della vita saranno sicuramente cose che non ti erano mai passate per la mente, di quelle che ti pigliano di sorpresa alle quattro di un pigro martedì pomeriggio.



Fa' una cosa ogni giorno che sei spaventato: canta!



Non essere crudele col cuore degli altri.

Non tollerare la gente che è crudele col tuo.



Lavati i denti.



Non perdere tempo con l'invidia: a volte sei in testa, a volte resti indietro.

La corsa è lunga e, alla fine, è solo con te stesso.



Ricorda i complimenti che ricevi, scordati gli insulti.

Se ci riesci veramente, dimmi come si fa...



Conserva tutte le vecchie lettere d'amore,

butta i vecchi estratti-conto.



Rilassati!



Non sentirti in colpa se non sai cosa vuoi fare della tua vita.

Le persone più interessanti che conosco a ventidue anni non sapevano che fare della loro vita.

I quarantenni più interessanti che conosco ancora non lo sanno.



Prendi molto calcio.



Sii gentile con le tue ginocchia,

quando saranno partite ti mancheranno.



Forse ti sposerai o forse no.

Forse avrai figli o forse no.

Forse divorzierai a quarant'anni.

Forse ballerai con lei al settantacinquesimo anniversario di matrimonio.

Comunque vada, non congratularti troppo con te stesso,

ma non rimproverarti neanche: le tue scelte sono scommesse,

come quelle di chiunque altro.



Goditi il tuo corpo,

usalo in tutti i modi che puoi,

senza paura e senza temere quel che pensa la gente.

E' il più grande strumento che potrai mai avere.



Balla!

Anche se il solo posto che hai per farlo è il tuo soggiorno.



Leggi le istruzioni, anche se poi non le seguirai.

Non leggere le riviste di bellezza:

ti faranno solo sentire orrendo.



Cerca di conoscere i tuoi genitori,

non puoi sapere quando se ne andranno per sempre.

Tratta bene i tuoi fratelli,

sono il miglior legame con il passato

e quelli che più probabilmente avranno cura di te in futuro.



Renditi conto che gli amici vanno e vengono,

ma alcuni, i più preziosi, rimarranno.

Datti da fare per colmare le distanze geografiche e gli stili di vita,

perché più diventi vecchio, più hai bisogno delle persone che conoscevi da giovane.



Vivi a New York per un po', ma lasciala prima che ti indurisca.

Vivi anche in California per un po', ma lasciala prima che ti rammollisca.



Non fare pasticci con i capelli: se no, quando avrai quarant'anni, sembreranno di un ottantacinquenne.



Sii cauto nell'accettare consigli,

ma sii paziente con chi li dispensa.

I consigli sono una forma di nostalgia.

Dispensarli è un modo di ripescare il passato dal dimenticatoio,

ripulirlo, passare la vernice sulle parti più brutte

e riciclarlo per più di quel che valga.



Ma accetta il consiglio... per questa volta.

domenica 5 giugno 2011

C'era una volta Babbo Natale

C’era una volta. Anzi, c’erano quattro volte. Quattro magici anni in cui l’incredibile ha preso vita, tra le mura di una delle ultime case appartenenti alla città di Lucca. Un numero 3841. Un numero che molti ricordano perché proprio lì, nella casa riportante questo numero in anni recenti sono accadute cose strepitose che ancora oggi molti cittadini, per non dire, italiani, ricordano.


C’era una volta una signora dal cuore grande con una grande passione: il Natale. Per lei il Natale aveva ancora quel significato che purtroppo vedeva perdersi in ciò che la circondava. Quel dare, per far riflettere, per invitare a dare a tua volta, per imparare a ricevere. Così, grazie a tutta questa passione, decise di allestire parte della sua casa come fosse la vera casa di Santa Claus, a noi meglio conosciuto come Babbo Natale. Dopo che ebbe terminato l’impresa però si rese conto che mancava la cosa più importante, lui: Babbo Natale. Ma se è vero che quando magie devono accadere, qualcuno ti aiuta, quel qualcuno mise sulla strada verso casa della gentile signora un altrettanto gentile signore, diventato amico negli anni che…era proprio Babbo Natale!

La casa c’era, Babbo Natale anche, serviva qualche folletto arruolato tra qualcuna della sue giovani figlie e tutto era pronto. Non restava che aprire questo luogo magico ad amici e parenti. E così fu, se non che la generosità di questa signora colpì un amico giornalista in visita che a sorpresa scrisse un articolo che fece il giro delle case della nostra città e di lì a poco erano centinaia le persone che ogni giorno volevano visitare la “casa di Babbo Natale”. Così passò un anno ed entusiasta della missione compiuta la signora, ormai chiamata, “regina del Natale”, nonostante l’enorme fatica che quella realizzazione comportava, decise di rendere tutto ancora più meraviglioso e grande per permettere a sempre più persone di poter visitare quel luogo e di rimanere contagiati dal buon spirito natalizio. Così fu e l’anno seguente erano migliaia le persone in visita alla casa ogni settimana e non più provenienti solo dalla nostra città, venivano infatti da Firenze, Livorno, Napoli, Milano e addirittura dalle isole! La notizia di quanto stava accadendo a quel numero 3841 stava facendo il giro dell’Italia. La generosità della regina del Natale era manifesta a tutti. Erano tante le persone impiegate nella realizzazione di quel magico mondo e tutti lo facevano volontariamente, per mesi e senza voler nulla in cambio. Nulla era anche quello che era richiesto ai visitatori…se non il permettere di farsi ispirare dai buoni sentimenti che abitavano le stanze della casa. E accadde tutto ciò. Accadde che bambini, in attesa verso la casa di babbo natale, raccontavano di loro alla gentile signora,ai folletti, così come facevano anche i genitori, che spesso si commuovevano ricordandosi di quanto avevano dimenticato. E si colorava insieme, si disegnava, si scherzava coi folletti dispettosi e si raccontavano storie che si erano perse nel tempo. Gli anni passavano e la gioia della regina del natale cresceva, così come però lo sforzo e l’impegno nel realizzare quell’impresa che era andata ben oltre l’immaginazione di ogni folletto. Furono molti che bussarono alla porta di quel numero 3841, proponendo la loro collaborazione a patto di snaturare un po’ il tutto, ma la signora non era disposta a barattare i buoni sentimenti, l’ispirare le persone con dei risvolti commerciali che avrebbero stravolto il senso di quel che faceva. Per cui ancora una volta, forte dell’aiuto dei suoi amici e parenti, si diede da fare lungamente per realizzare la magia della casa di Babbo Natale. Però accadde che la regina del Natale, all’inizio dell’ultimo di quei quattro anni di magia si ammalò di un brutto male. Avrebbe dovuto riposare e prendersi cura di sé. “Mi prendo cura di me, prendendomi cura degli altri”, rispondeva lei e allora la magia accadde di nuovo, la casa si animò ancora una volta di volti di persone, bambini, nonni, amici e lei ogni pomeriggio, li salutava un po’ prima perché delle brutte terapie l’attendevano. Non lo raccontò mai a nessuno dei visitatori, non lo raccontò neanche gli anni successivi che la magia di quella casa non potè ripetersi perché era troppo debole e per cui molto triste.
Però magie erano accadute in quegli anni. Le sue tre figlie, ognuna con il proprio particolarissimo modo, portano avanti la stessa magia imparata negli anni della casa di Babbo Natale, quando la regina del natale aveva sempre un sorriso per tutti, un abbraccio, un racconto o anche solo il saper ascoltare. E non solo su di loro ricadde la magia della regina del natale, ma sui tanti visitatori, sui tanti bambini, sulle tante famiglie, sui tanti amici. E forse continua a ricadere anche su voi che leggete e forse incominciate a credere che tutto può accadere, basta solo volerlo, pronunciare un “c’era una volta” e che la magia abbia inizio.

Buon compleanno regina del Natale. Buon compleanno mamma.

Parole, parole e non solo

Causa sviluppo di nuove tecnologie che mi hanno portata a far passare a miglior destinazione il mio vecchio cellulare aziendale, il quale grazie al riciclaggio potrei probabilmente trovare trasformato in gruccia o un phon per capelli nel giro di qualche mese, nel mezzo di questo trapasso mi sono ritrovata nel menù generale dello stesso. Una schermata molto limpida a esalare le sue ultime comunicazioni prima del saluto finale: 40 giorni. Cosa , 40 giorni? Il tempo trascorso al telefono da quando possedevo quel cellulare. 40 giorni. Imponendomi un sorriso di gratitudine alla piccola tecnologia così lungamente al mio fianco, appena dopo il saluto finale e la rimozione della SIM card, ecco che penso alla cosa più importante: 40 giorni. E nessuna conversazione che riesca a ricordare per una durata superiore ai 20 minuti. C’era davvero bisogno di impiegare 40 giorni per comunicare e ricevere tutte le comunicazioni fatte? Così ripenso in un batter d’occhio (devo recuperare tempo) a quanto imparato lungo i miei percorsi formativi. E penso a lui. Il genitore della comunicazione: Paul Watzlawick. Fù proprio Paul, che nel lontano 1967, dal lontano nuovo continente, dava vita al capostipite degli assiomi della comunicazione: “E’ impossibile non comunicare”. E facendo sempre un breve (sempre causa recupero tempo perso) excursus canoro tra il repertorio della “tigre di Cremona”, ricordo che la comunicazione và ben oltre ciò che cantava lei, in uno dei suoi brani più conosciuti. Le Parole infatti, influiscono solo per un 7% su quanto viene recepito a seguito di un messaggio vocale, mentre Volume, Tono e Ritmo contano per un 38%, appena sotto i Movimenti del Corpo, che la fanno da padroni con un 55%.


Certo impedimenti spaziali portano a obbligate comunicazioni verbali, scritte o parlate che siano, ma nel resto dei casi, studi sulla comunicazione ci fanno sapere che si riesce a ottenere meglio e prima il passaggio di un messaggio, attraverso tutto il restante tipo di repertorio comunicativo che un telefono esclude.

E le parole non sempre aiutano inoltre. Spesso anzi, sono in contrasto con quanto i nostri gesti, la così detta cinestesica, comunica. Mi viene in mente l’espressione più usata da alcune donne “Caro, dobbiamo parlare”, che credo potrebbe essere usata come monito ai lavoratori di imprese coloniche e Roma si sarebbe fatta in un giorno, pur di evitare quel tanto apparentemente gentile dialogo. Per cui sì alla comunicazione paraverbale, sì alle espressioni del viso, sì ai gesti, sì soprattutto all’ascolto che trascendendo i principi della comunicazione è alla base di qualsiasi soluzione strategica. E forse, la prossima volta che vi ritroverete a dialogare al telefono, in corsa verso quei 40 giorni, la prossima frase che vi verrà da dire potrà essere “ci vediamo appena possiamo?”. Un paio di ore, le risparmierete di certo.



Laura Grassi

Eppure mi hai cambiato la vita

Anche se non te lo aspetti, può succedere di tornare a casa una sera e di trovare la cassetta della posta che ti invita a prendere la lettera che sbuca dalla sua apertura. “Un’altra bolletta, è già passato il bimestre?” pensi tra te e te, stanca della lunga giornata che hai avuto. Ma no, niente di tutto ciò. La lettera è una busta su cui non c’è neanche attaccato il francobollo e prima che tu possa pensare “stalker” o “Comune”, la calligrafia che ti si presenta davanti agli occhi ti racconta una storia. Una bambina. A scrivere è una bambina, con i pastelli a cera, intuisci, che tra le tante righe della carta ti racconta di sé. “Mamma dice che tu sei la fatina dei libri e mandi via i mostri la notte”. Parole dopo parole, disegni, faccine e un post scriptum di mamma “ Sei un’ispirazione, grazie fatina”. Ok, sicuramente neanche alla bolletta più alta della storia della privatizzazione del Gas avresti pianto così tanto. Bambina di 6 anni batte bolletta astronomica. Ti siedi sul divano di quella che non sai come, vista l’alta marea oculare, hai raggiunto mentre salivi le scale e che chiamasi casa. E pensi. Che forse si debba avere 6 anni per riuscire ad avere il coraggio di fare cose così? Di dire a una persona che qualcosa che ha fatto è stato d’ispirazione e che ti dato una nuova prospettiva. No. Io non credo. Credo però che si possa scegliere di rischiare: di apparire stupidi, di apparire insensati, di apparire incoscienti. Si può rischiare di mandare delle lettere, di guardarsi senza dirsi niente, di prendere dei pastelli e fare quello che ha fatto quella bambina a soli 6 anni. Rischiare di portare delle arance a un amico ammalato, di fare un regalo che lo riporti bambino, di raccontare di se cose che non diremo a nessuno. Ma a lei, lui, loro sì. Perché …eppure…ci hanno cambiato la vita. E servissero tutti i pastelli a cera del mondo, meritano di saperlo. Perché poi la vita quotidiana è fatta di quella posta fatta di bollette e lettere indirizzate proprio a te e al tuo conto in banca, nere su bianco, nessun colore e tra una e l’altra è bello poter sorridere pensando che quella lettera a pastelli c’è stata e che ha cambiato per sempre il tuo modo di guardare alla cassetta della posta. E di saper salire le scale mentre ti soffi il naso.




Laura Grassi

Es, Io, Super-Io e....Facebook?

A oltre 150 anni dalla nascita del Professor Freud, “ai tempi d’oggi” per dirla con un’espressione tipica dei nostri adulti osservatori o “alla luce dei fatti”, viene da chiedersi se il padre della psicoanalisi non avrebbe rielaborato le sue teorie sulla struttura dell’inconscio. Allora era il 1910 e per il neurologo austriaco la nostra mente inconscia era abitata da tre entità: Es, Io e Super-io. L’io, altresì detto Ego veniva considerata la struttura a bilanciamento dell’Es più animale e del Super-Io più morale ed etico.


Questo era il 1910 appunto. Cosa sarebbe successo se quella stessa teoria fosse stata elaborata dopo il 2004? Cosa è successo nel 2004, vi starete chiedendo? E’ accaduto una cosa che riguarda la maggior parte di noi, quotidianamente: è nato Facebook. E fa la differenza. Si perché oltre all’Es, Io e Super-io, forse viene da pensare che si possa ipotizzare una quarta identità: Faccia-Bit?? E forse questa stessa identità potrebbe essere un mix quando più equilibrato e quando meno delle precedenti strutture firmate Freud. Quando potrebbe inoltre dotarsi di straordinari poteri del mondo che l’ha generata e diventare quello che in realtà le altri tre parti non sono. C'è che non lo sapremo mai fino alla nascita del prossimo luminare e nel frattempo, forse ha ragione il mio migliore amico. Tre parti di inconscio con cui avere a che fare sono più che sufficienti e quello che siamo davvero, non lo si può ritrovare tra i bit. Almeno per ora...



Laura Grassi

Aiutereste mai uno sconosciuto?

O sconosciuta. Aiutereste mai uno sconosciuto o una sconosciuta? E’ la domanda che mi sono posta nelle ultime frenetiche settimane di slalom tra pedinatori, aspiranti borseggiatori e molestatori.


Ebbene sì, la città è piccola (Lucca) ma non per questo sprovvista degli ultimi modelli dei più sofisticati e tecnologizzati aspiranti stalker. Mi permetto di usare un tono provocatorio sottointendendo un ovvio supporto a tutte le persone che hanno avuto a che fare con questi ceffi. Una di quelle persone purtroppo, sono stata anch’io recentemente. Andiamo per ordine:

Caso 1: “L’addocchiatore al supermercato”. Sappiate che può capitare, facendo una tranquilla spesa al supermercato, tra tovaglioli e dentifrici, di imbattersi in qualche signore il cui scopo del tour sia lungi dall’attenzione all’offerta del mese, quanto nel capire se l’offerta del giorno possiate essere voi. Non importa se cerchiate o meno di nascondervi dietro le casse di acque naturali. Lui, vi troverà e vi sorriderà, senza la parvenza di un acquisto in mano, perché l’unica cosa che vorrebbe in quel momento è anche l’unica che non può comprare: Voi. E qui, si chiede aiuto. Io l’ho chiesto a un ragazzo in coda a una delle casse. “Un uomo mi sta seguendo insistentemente, ti dispiace se parliamo facendo finta di conoscerci?”. E ha funzionato. Anzi, il gentilissimo innocuo ragazzo in questione ha atteso che pagassi alla cassa e mi ha riaccompagnata fino al parcheggio, sotto gli occhi dell’uomo che aveva ormai capito non c’era più niente da fare.

Caso 2: “L’aspirante scippatore”. Sappiate che può capitare anche questa, di tornare da una cena in centro in compagnia di un’amica, ad un orario consono anche a Cenerentola, e che proprio nel mezzo del cammin si avvicini un giovane alle spalle. E può anche succedere che capiti di pensare “Avrà visto la città deserta, vorrà camminare in compagnia” e può succedere anche di sbagliarsi alla grande quando questo ipotizzato timoroso giovine allunghi le sue mani sulla borsa dell’amica che, militare, sappia benissimo come reagire a differenza della sottoscritta pronta a sfoderare un passato da soprano lirico. Esclamazioni e grida a profusione, fuga senza malloppo del giovane e “tutta nostra la città…un deserto che conosco”, non una finestra che si sia aperta, non un lontano passante che si sia avvicinato, non un telefono preso in mano dalle decine di segnalatori di schiamazzi notturni. Niente. Il vuoto. Zero.

Caso 3: “Il pedinatore ferroviario”. Se Calvino fosse stato presente, avrebbe modificato il suo celebre romanzo in “Se una notte di primavera una viaggiatrice”. Firenze-Lucca. Che però andrebbe letta col tono di una “Milano-Palermo” poiché, i treni regionali dopo le 9 di sera tendono notevolmente a spopolarsi e può succedere che da provvidenti viaggiatori solitari decidiate di scende dal vostro vagone fantasma a ogni fermata, risalendo su uno più popolato. Ottima idea, la stessa cosa la fa anche un uomo. Stessa identica. Sedendovi sempre nel sedile retrostante, cercando però di nascondersi e non farsi notare. Escludendo paranoie, le sue intenzioni sono evidenti. Così chiedo supporto a un distinto signore prossimo a scendere alla mia stessa fermata, in quanto temo per la traversata del sottopassaggio in solitaria. Scese le scale del binario, prossimi all’inzio del sottopassaggio il distinto signore mi fa sapere che lui non fa la mia stessa strada e “mi dispiace”. Terrore. Panico. Superpoteri: corsa rapidissima e allontanamento istantaneo dal pedinatore, ovviamente sceso anche lui alla mia stessa fermata.
Dunque. Un aiuto, l’indifferenza, la noncuranza. Mi chiedo. Voi aiutereste mai uno sconosciuto che vi chiede aiuto? Oppure quello che ci raccontano i giornali e notiziari sta facendo improvvisamente diventare quest’Italia unita sotto un velo di noncuranza che si raccontava solo essere tipico della pianta dello stivale?

A voi, la soluzione dei casi…



Laura Grassi

Voi speriamo che ve la caviate

Recente la notizia passata su tutti i TG nazionali che in una scuola di Vicenza, un professore di storia, abbia contestualizzato una sua lezione sul fascismo facendo cantare “faccetta nera”. Recente e scandalosa. Oltraggiosa. Inammissibile. La mia riflessione non vuole andare a toccare la politicizzazione che alcuni professori possono fare o meno delle proprie lezioni, ma di come questi invece possano al giorno d’oggi fare o meno i professori. “Voi speriamo che ve la caviate”, mi viene da dire parafrasando un meno recente film di indagine scolastica. E speriamo davvero, perché noi ragazzi degli anni ’80 ce la siamo cavata ma a renderlo possibile sono stati anche proprio i nostri professori. Diplomata in una scuola made in brianza, ricordo ancora benissimo alcuni dei miei insegnanti e le loro lezioni. “Very politically scorrect”, si direbbe ora e altro che passaggi sui TG nazionali. Il nostro professore di italiano si presentava la maggior parte delle volte con le mani sporche di terra (aveva un orto) e col fil di ferro in tasca (costruiva il recinto per l’orto). Il suo programma di studi credo non sarebbe stato approvato da nessun Ministero se non quello de “la vita reale”. I poeti che ci faceva studiare erano tra gli altri Carmen Consoli, nota cantante siciliana e molti tra i più noti registi cinematografici italiani. Le lezioni erano quasi sempre in aula proiezione. E voleva prendessimo appunti. “Ragazzi, è con il cinema che si denunciano i soprusi, si è iniziato negli anni ‘40”. Noi lo prendevamo in giro, sempre un po’ sopra le righe. Pronto a non risparmiarci il suo brianzolo“ l’è un capiss nagott” (trad. “quello lì non capisce nulla”), riferito al politico che di turno veniva eletto. Ed era anche pronto a dirti che quel “nagott” non l’avevi capito neanche tu se decidevi di iscriverti a quella che secondo lui era la facoltà universitaria per la quale tu non eri fatto. E non c’era nessun regolamento, nessuna direttiva, nessun decreto che bandisse queste sue parole. Quel che credo, è che dietro quel suo modo alternativo di fare lezione, dietro quello che forse c’è in quello di alcuni professori di oggi, ci sia il trattare i ragazzi da adulti. Il credere che siano grandi abbastanza per capire da soli cosa gli venga detto, in che modo e valutarlo. Oggi più che mai, dove l’accesso al mondo web avviene da giovanissimi, dove da altrettanto giovani si viene a contatto anche con il mondo reale fatto di fatti. Concentrandoci meno sulla caccia alle streghe armate di registro, si tratta di fornire ai ragazzi quanto più ampio e vario materiale possibile per far sì che, speriamo, se la cavino.




Laura Grassi

La vita secondo Super Mario

Mario, semplice e genuino idraulico, piccoletto e cicciotello, alle prese con mostri di ogni tipo, intento ad attraversare mondi dalle mille sfaccettature, mosso dal voler salvare la sua amata principessa. Se Dante ci ha cantato ciò che accade alle anime dopo la morte nelle sue tre cantiche, possiamo dire che Shigeru Miyamoto, designer giapponese di videogiochi, ci ha raccontato quello che accade nelle nostre vite ogni giorno. Persone comuni, alle prese con le difficoltà più impensabili, con una meta da raggiungere. E se a Mario accadono delle cose meravigliose che sono in grado di renderlo più “grande”, veloce o potente, così accade anche a tutti noi nella vita, e ciò che nel videogioco assume le spoglie di un fungo, di una stella o di una moneta, sono per noi avvenimenti positivi, che si fissano nella nostra memoria e che sono in grado di darci una “botta di energia”. Si, perché la barrettina colorata a margine schermo la abbiamo anche noi, lì pronta a ricordarci il nostro livello di energia, in continua oscillazione a seconda di ciò che incontriamo lungo nostro cammino. Fungo o pianta velenosa, lo abbassano notevolmente, ma il coraggioso Mario fa tesoro dell’esperienza e impara che dai tubi possono uscire dentelli affilati, così come noi possiamo trovarci di fronte a ostacoli, quando una situazione non è chiara. A noi però, il livello di energia non sempre è dato saperlo. C’è chi infatti ricade sempre nel solito errore, diminuendo la sua forza ogni istante di più e ostinandosi a voler scendere in tubi che non ci porteranno mai da nessuna parte. Mario, alle volte la sa più lunga di noi, e ci dice che tutto è possibile se si ha coraggio e se si procede con consapevolezza. Addirittura le scivolate hanno la loro funzionalità e ci fanno sapere che siamo in grado di passare sotto “quadrati di ghiaccio”, contro i quali altrimenti sarebbe inevitabile scontrarsi. E tanto quanto era difficile trovare la combinazione giusta di tasti per realizzarle, così è per noi l’attuazione delle scivolate coscienziose. Ci sono poi i livelli, capitoli della nostra vita, da concludere come condizione senza la quale non si può passare a quello successivo. Si può però premere pausa, cosa che a noi non è possibile, non c’è modo di mandare indietro il gioco, ma è proprio questo che rende ogni partita unica e diversa dalle altre. Andando avanti, attraverso i vari mondi, Mario imparava a travestirsi e a rendersi personaggio protagonista in un mondo che all’inizio sembrava non appartenergli. Così lo abbiamo visto trasformarsi in pesce, in rana, in volatile, riuscendo a sfruttare al massimo le potenzialità di quella condizione. Così facciamo noi, o meglio, dovremo imparare a fare, riuscendo a utilizzare gli aspetti positivi di ogni situazione alla quale siamo inizialmente estranei. Mario, a differenza nostra era però dotato di un libretto di istruzioni in cui ogni avversario era catalogato e in cui veniva spiegato come affrontarlo. Quanti di noi hanno letto quel libretto e quanti invece si catapultavano a giocare, scervellandosi ore su come “eliminare” uno dei cattivi? Forse il DNA umano in questa condizione aveva la meglio e ci reclamava al voler trovare una soluzione, che non fosse già stata scritta per noi. C’era poi chi per affrontare questi cattivi chiedeva consigli agli amici, confrontandosi sui vari modi in cui avevano tentato di sconfiggerli. Proprio come si fa nella vita reale, chiedendo consigli e provando ad attuarli. Qualcuno però, tra i più tecnologici, sapeva una serie di codici che ti permetteva di arrivare direttamente all’ultimo livello. Ma dopo un compiacimento iniziale, si accorgevano subito di non avere acquisito l’esperienza necessaria per affrontare tutto quel caos dell’ultimo livello. Così nella vita non si può barare, non si può saltare alla fine, e tutto quello che incontriamo lungo il cammino ci serve per poter avanzare più consapevoli, giorno dopo giorno. Ma arrivati quasi alla fine, Mario, ci insegna ancora una cosa, che non si fa da soli ciò che si potrebbe fare in due, ed ecco apparire Luigi, fratello di Mario, pronto ad aiutarlo e fare le sue veci. La meta, la principessa Peach, ma forse, ancora una volta, non sarà questa a renderlo e renderci felici, ma il ricordo delle avventure vissute per arrivare fin lì. A tutti voi, Buona Partita.
 Laura Grassi