martedì 21 maggio 2013

O cresci, o muori. La piccola sfida di salire in sella a un cavallo.

 
"O cresci, o muori", si dice così. Ho perso mia mamma. Che poi dire "perso" chissà cosa vorrebbe significare. Si dice perdere le chiavi di casa, perdere un treno, perdere un' occasione. Dire "perso" per le persone, per la propria mamma, per qualcuno che ha abitato il tuo cuore, che ci ha costruito dentro una casa, con tanto di giardino e animali domestici, sembra non avere alcun senso. Io ho perso una mamma che aveva poco più di cinquant'anni. Anni passati a crescere noi figlie, a farci scoprire passioni che chissà lei in quale vita passata aveva già conquistato. Anni passati ad essere la mia fan numero uno. E non bisogna essere famosi per avere un fan. Basta essere figli. Io lo sono stata e lei era fan di quello che scrivevo, delle idee che mi prendevano in fila al supermercato e appuntavo sulle etichette delle bottiglie che avevo sottomano. Era la fan che mi regalava penne e quaderni vuoti. Pagine bianche, una manna dal cielo per gli scrittori. Non ho più scritto da quando l'ho persa. Era troppo complicato farlo. Richiedeva un saper scrivere abbastanza bene per onorare il suo essere stata fan.Non avrei scritto del dolore. Ho sempre sperato di poter essere una di quelle persone in grado di affrontare i dolori con dignità e riservatezza e certi ricordi, li custodisco gelosamente nella mia memoria, così come certi dolori. Non ci sono parole per esprimerlo, il dolore forse appartiene al tatto, si cura con quello. Ma non siamo un paese di persone tattili, chiacchieroni, illusionisti della parola, per cui il dolore resta lì. Resta nascosto talmente bene che anche gli altri sembrano essersene dimenticati, dimenticano il "come stai" e ti parlando degli altri con compassionevolezza, come se tu avessi bisogno di rispolverare le emozioni, ormai superate e lontane. E' forse l'alienante risultato dell'aver scelto la dignità del dolore, dell'aver scelto tra il "cresci o muori".
L'ho pensato quando ieri per la prima volta ho montato un cavallo. Me ne stavo lassù, in groppa a questo strepitoso animale, non avendolo mai fatto prima e ho avuto le vertigini. Era qualcosa di totalmente sconosciuto, ma ero li e potevo solo scegliere. Provare o scappare. Mai similitudine mi è sembrata così calzante come quella del dover riuscire a trovare un equilibrio in sella a un cavallo, con quella di sopravvivere a un dolore. Perchè appena trovi l'equilibrio ecco che la vita và avanti, ecco che il cavallo inizia a trottare e tu devi sapere trovare il ritrmo per non prendere troppi colpi o finire disarcionato. Devi riuscire a dimenticarti che non sai come si fà, e stare al passo con quello che accade, pensando che è una delle cose più naturali del mondo. Pensando che puoi anche riuscire a stare in sella a braccia spalancate e sorridere. Ridere del tuo successo, ridere di te stesso, ridere del fatto che puoi risucire a ridere.
Decisamente si cresce...
Laura Grassi

domenica 15 luglio 2012

I bassotti della Parda


Sarebbe stato un sabato in famiglia. Cominciava con un appuntamento per pranzo. C'eravamo ritrovati tutti, i miei genitori e mia sorella. Ci siamo seduti, abbiamo ordinato e atteso quei lunghissimi minuti che passano prima che il pranzo ti venga servito. Minuti a parlare delle solite cose: la casa, i progetti lavorativi, le vacanze. Un bassotto. No, non faceva parte degli argomenti trattati ma lui, un bassotto, colpì dopo poco la nostra attenzione. Stava seduto composto sulle gambe del suo proprietario mentre questi era intento ad assaporare il piatto di spaghetti che aveva davanti. Nessuna conversazione, era solo al tavolo. O meglio, ancora per poco. Un ragazzo di quelli che conosci di vista, che hai visto tante volte in tanti posti diversi lo avvicina, lo saluta. Il bassotto immobile, composto. Mi alzo. "Complimenti, ha un cane straordinario", dico all'avventore solitario. "Ciao", mi saluta il ragazzo "se ti piacciono i bassotti", continua lui "mia sorella ha un allevamento qui sulle colline di Lucca; segnati il nome: I bassotti della Parda". A seguire tutta la mia famiglia a complimentarsi col proprietario del piccolo quadrupede, io a ringraziare il ragazzo, Filippo, il cane a farsi accarezzare e il pranzo che velocemente viene servito e terminato. Giro in città, seconda tappa del sabato in famiglia. Una breve ricerca su internet a cercare l'allevamento segnalatomi da Filippo, un numero, chiamo. Mi risponde quello che avrei conosciuto come Carlo "abbiamo una cucciolata nata da meno di un mese, vienici a trovare qualche volta", dice. "Se vengo tra un ora va bene?". La mia domanda trovò risposta positiva e così, quel pomeriggio prese un'altra direzione. Direzione Matraia, colline lucchesi. Fine del sabato in famiglia. Erano mesi che cercavo un cane. Erano passati anni da quando il mio era scomparso e tour per canili e viaggi in internet ancora non mi avevano fatto incontrare il mio migliore amico a quattro zampe. I bassotti, non li avevo mai considerati con attenzione. Ad aprirmi il cancello trovo Chiara, la Parda. L'allevamento porta il suo cognome tronco, abbreviato, come a dare un cognome a tutta la sua banda: 24 bassotti. Chiara mi racconta di cosa sono per lei quei bassotti, mi racconta le loro storie, di Minimè, di Twiggy, di Neccio, di Mucca, di Nutella.  Mi racconta mentre in sottofondo loro si muovono, cercano baci, coccole, fanno le feste. Qualcuno punta all'albero della frutta, qualcuno fa branco. Mi porta a vedere i cuccioli, i piccoli nati da poco. Apre la porta di casa e insieme a Carlo ecco lì davvero tutti i cuccioli, compreso Niccolò, il loro bimbo di quasi un anno. Appena ci avviciniamo ai quattro cuccioli, che portano il nome dei "matti" di Lucca, Niccolò batte le mani e ride, li vorrebbe prendere in braccio anche lui, lui che tra i bassotti c'è cresciuto, ci sta crescendo e ci crescerà, mi continua a raccontare Chiara. Mario Son Sodo è li nel mezzo, in quel sabato pomeriggio ancora non so che dopo qualche mese verrà a casa con me e che ora, mentre scrivo, sta dormendo sul divano stanco per aver nuotato in piscina. Ancora non so che Chiara mi aprirà il suo mondo, che mi porterà con lei alle famose "gare di bellezza cinofile", dove Mario vincerà coccarde e bottiglie di vino, dove scoprirò che è tutto diverso da come sembra, dove i cani si divertono e succedono tra umani cose assurde. Ancora non so che Mario si farà lunghe passeggiate con tutti i suoi nuovi amici, che zampetterà verso di me la prossima volta che andrò a trovarlo, che diventerà amico di tutti i miei amici e frequentatore di cene e pizzate. Ancora non so che vedrò altri cuccioli nascere e Niccolò dormire con loro, abbracciato. Ancora non so che chiamerò Chiara a qualsiasi ora per qualsiasi problema del cucciolo e lei risponderà.  Ancora non sapevo che pensavo di aver interrotto il mio sabato in famiglia quel sabato, ma che ero in quella famiglia che si chiama Gang della Parda, con tutti i suoi bassotti, due allevatori che vivono per la loro famiglia a due e quattro zampe  e Niccolò, che allunga le mani e ride al prossimo cucciolo che gli va incontro a dargli baci. Quello che sapevo è che si può scegliere il proprio miglior amico a quattro zampe  per tutti questi motivi, perché lo trovi e lo sai, anche quando non te lo saresti mai aspettato.
Laura Grassi

martedì 17 aprile 2012

Il giornalismo del 2012 made in Lucca


Primavera 2006, Roma. Master di giornalismo. Tra i miei insegnanti i giornalisti più noti e professionalmente riconosciuti della carta stampata e della televisione. Nomi altisonanti, ognuno con la propria storia alle spalle. Tra i miei colleghi, ragazzi e ragazze coetanei, imbarazzati anche loro come me di potersi trovare di fronte alle penne più stimate del giornalismo italiano. Giovani comuni, tra i quali di lì a qualche anno avrei scoperto amici tra i più cari.
Sopra tutti ricordo il maestro che ci raccontò la storia delle "cinque W" (Five Ws). Un buon giornalista, ci spiegava,  quando dà una notizia deve soddisfare le cinque W:  Who, What, Where, When,  Why. Ovvero Chi, Cosa, Dove, Come e Perché. Il perché è sempre la domanda più difficile tra le altre ed è ciò che distingue un ottimo giornalista da uno mediocre. Non vanno fatte supposizioni che potrebbero sfiorare in illazioni ma vanno fatte domande alle persone coinvolte. Corrado, questo il nome del nostro insegnante, negli ultimi anni si era dedicato a scrivere di luoghi lontani per un noto settimanale italiano. "Cosa rende la mia storia qualcosa da leggere diverso da quello che potreste trovare in una qualsiasi guida?". Ci spiegò che lui raccontava  il "Will", la sesta W, l'intenzione. L'intenzione era tutto il senso di una storia. Quello che San Tommaso d'Aquino riassume nei suoi 8 elementi, che comprendono oltre che le cinque W anche il "Quantum, Quo modo, Quibus Auxiliis", ovvero il "Quanto, In che modo e Con quali mezzi". Tutto il senso di una storia, di una notizia.

Primavera 2012, Lucca. Lettura di un quotidiano della città. Si informa sulla situazione finanziaria di una nota attività commerciale intramoenia. Un'attività tra le più serie appartenente a una delle famiglie storiche della città cintata, che fonda la sua fama sulla serietà, sulla dedizione al cliente, sul modo di essere commercianti come lo si era una volta, chiedendo come stanno i propri cari, creando un legame di fiducia con la propria città e con i cittadini. Lungi da me disquisire sulla deontologia del giornalista ma questa notizia a pieno pagina mi colpisce e mi rimanda a quel lontano 2006, a quelle lezioni teoriche, a quegli insegnamenti, a quel modo di fare giornalismo. Quando ci spiegavano , a noi 30 giovani studenti, che dietro una notizia c'erano delle persone. Degli amici, dei genitori, dei vicini di casa, dei colleghi. Forse non i nostri ma quelli di qualcun altro e non per questo meno tutelabili. Quando ci spiegavano che se devi fare un articolo pieno di numeri, di dati, devi ricordare che dietro quei numeri ci sono delle persone per i quali hanno un peso, quei numeri, ogni giorno. Quando ci spiegavano che dietro un'attività che si conclude, c'è la fatica di una vita di tante persone, di tante famiglie. Ci sono giorni in cui non si sono andati a prendere i figli a scuola, perché bisognava aprire presto il negozio, ci sono domeniche passate senza i propri familiari perché bisognava pensare all'attività, ci sono feste di compleanno festeggiate giusto in tempo perché bisognava provvedere alla pianificazione dei lavori e tanto da fare. Ci sono bambini che aspettano che i genitori non finiscano troppo tardi di lavorare per stare un po' insieme. Ci sono nottate di soci passate a pensare a soluzioni ossigenanti la propria.....userei il vocabolo "attività" ancora una volta, ma forse dovrei dire "vita". Sì, di tutta una vita. A me, a noi 30 giovani hanno insegnato tutto questo.
E Corrado, ha stampato a chiare lettere nella nostra mente il senso di tutta una storia, il dovere di un giornalista, il Will, la priorità di fare informazione, la necessità di fare informatio, di dare forma alla mente delle persone, di dar loro gli strumenti per capire le motivazioni, le conseguenze, le volontà successive, per dar loro una notizia che diventi bagaglio del proprio vissuto, risorsa alla quale poter accedere qualora si dovessero trovare in una situazione simile. Manca una parte di notizia su questa pagina di cronaca della città ma per quanto la mia penna non sia importante quanto quella dei più emeriti giornalisti, diciamo una Bic paragonata alle Mont Blanc di qualcun altro, voglio far sapere ai "Chi" di questa manchevole notizia che la città sa. C'è una stoffa di persone, di commercianti amici, di persone comuni che conoscono quello che non è stato raccontato. Che sono la memoria storica della città, che può essere letta nei racconti scambiati a voce. Che non si pubblica sulla carta stampata un giorno l'anno, ma che si trasmette ora dopo ora, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Che è indelebile.
Traendo spunto dalla letteratura per ragazzi, Robin Hood sarebbe stato solo un furfante se qualcuno non ci avesse raccontato il perché e la volontà del fatto. Invece è un personaggio  che incarna l'eroe positivo. E' tutto il senso di una storia. Lo direbbe Corrado e, con permesso, avvicinando il mio nome al suo, lo dico anch'io. Un'ex studentessa di giornalismo, una cittadina di Lucca, un'amica, una collega, una trasmettitrice della parte di racconto mancante.
Laura Grassi

martedì 21 febbraio 2012

Il nido di Pippi


Sono le otto di sera. Forse un po’ tardi. Roberto starà preparando da mangiare ai ragazzi o forse già cenando. Ma la nostra chiamata sarà breve. Una breve intervista per scrivere un articolo su di lui, su sua moglie, la loro associazione e i loro ragazzi. Giovedì sera organizzeranno una serata da Pizza e Poi. Giropizza, intrattenimento musicale, lotteria di beneficenza. E gran parte dell’incasso sarà devoluto al “Nido di Pippi”, la loro associazione che porta il nome di uno dei loro ragazzi scomparsi molto prima del tempo.  Di loro ho letto su internet. Lo chiamo. Non sta ancora cenando ma mi fa aspettare qualche secondo. “Ragazzi continuate così che poi torno e guardo se avete fatto bene”. Qualcuno di loro sta facendo i compiti. Tutti rispondono educatamente. Decido di seguire un suggerimento del mio professore ai tempi del Master in Giornalismo.  “Se vuoi fare una buona intervista, non fare domande. Ascolta”.  “Raccontami dell’associazione Roberto”, gli chiedo. E parte a raccontarmi che dal 1992 con sua moglie sono diventati famiglia affidataria a cui vengono dati in affido negli anni tanti e tanti bimbi che con gli anni crescono e diventano grandi. Loro hanno già tre figli loro, ma “gli affetti si moltiplicano, non si dividono”, continua Roberto. Mi racconta di cosa vuol dire essere famiglia affidataria, di quanto sia diverso per il bambino, essere ospitati in famiglia piuttosto che in una struttura, mi racconta di come lo Stato non sostenga le famiglia così come le strutture invece. Mi parla di leggi, mi parla di come si stanno muovendo a livello regionale per far sentire le proprie ragioni. Mi parla degli obiettivi dell’associazione, informare, formare, sostenere non solo i bambini, ma chiunque abbia bisogno di sostegno e da solo non possa farcela. Mi parla di loro, che sono stati più di 11, che qualcuno di quei bambini è diventato maggiorenne e ora è parte della famiglia. Non mi parla mai di sacrifici. Mi parla di scelte. Mi racconta che ci vuole dedizione e sostegno. Mi parla della serata del 9 febbraio a Pizza e Poi. “Ci sarai Roberto, queste cose le racconterai anche ai presenti?”. E sull’unica domanda dell’intervista, Roberto acconsente.  “A giovedì”,  ci salutiamo.
Sarà giovedì sera e l’unicità dell’associazione di Roberto e sua moglie, “Il nido di Pippi”, troverà ospitalità tra le mura del Pizza e Poi, tra i cuori di quelle persone che hanno avuto orecchie per sentire e per unirsi alla causa di “Pippi”. E sarà un’altra serata come quella della mia intervista.  Di quelle che fai una cosa e ti immagini già come andrà, cosa succederà. Di quelle in cui ti accorgi che quello che sarebbe successo non te lo potevi neanche immaginare minimamente. E il cuore si spalanca e qualcosa cambia. Perché..”l’affetto si moltiplica, non si divide”.

lunedì 28 novembre 2011

Giornata mondiale contro la violenza sulle donne e non solo


“Tre costole rotte, due denti mancanti e cinque bruciature di sigarette sulle gambe”. Questo il sottotitolo di un viso luminoso di un’ apparentemente splendida donna. “La violenza non è sempre visibile”. Questo, a continuare, lo slogan del manifesto vincitore della campagna stampa realizzata in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, del 25 novembre 2011.
La violenza è qualcosa che non sempre è visibile. Esiste e permea gli Stati tutti, non guarda in faccia al benessere, alla cultura, all’erudizione. Esiste e si cela tra le mura di casa, nei vicoli delle strade, nelle macchine, ma non solo. Esiste e si cela in posti ancor più piccoli. Nella gola di chi non riesce a denunciare, a parlare. Nella mente di chi continua a rivivere la violenza subita, ogni giorno. Negli occhi che guardano basso, perché cosa c’è dopo ancora non riescono ad immaginarlo, sono occhi che guardano sempre indietro. Occhi di una donna su tre, come ci fa sapere l’Istat, che nella sua vita è stata colpita dalla violenza di un uomo. Fisica, psicologica, verbale, fino ad arrivare alla più recentemente riconosciuta “violenza di perseguitazione”: lo stalking, forma ad oggi sempre più diffusa di violenza in quanto tende a perdurare anche a seguito di una denuncia.
“Tre costole rotte, due denti mancanti e cinque bruciature di sigarette sulle gambe”. Questi i danni che non si vedono in volto ma che calpestano il corpo di una donna, oltre ai danni indiretti che le attraversano lo spirito. Sono infatti moltissime le donne, secondo i dati della ricerca “Daphne III: Violenza sulle donne, danno indiretto” che avendo subito violenza, o avendola vissuta in famiglia da bambine, negano a se stesse il desiderio di costruire una coppia orientata alla formazione di una famiglia. E non solo, parlando di violenza, la psicologa Maria Rita Parsi, tratta anche quella che oltre alle donne, sono gli uomini a subire, spesso da donne che sono state loro stesse prime vittime di violenza e che infliggono, nella maggioranza, ai propri figli maschi facendoli diventare la propria arma di riscatto e pretendendo da loro che facciano qualcosa per loro in quanto madri, dal momento che credono che loro stesse non possono fare nulla per se stesse.

Saranno molte e varie le manifestazioni che in questa giornata mondiale contro la violenza sulle donne si terranno in tutto il mondo. Una giornata che potrebbe essere l’occasione per riflettere sul significato di violenza, che subita dalle donne riguarda in realtà ogni essere umano.



Perché non succeda più.



Laura Grassi

Undici Undici


Bacio. Kiss. Baiser. Kuss. Oppure ancora, X, corrucciare le labbra, :*, strofinarsi i nasi. Tanti modi diversi per dire la stessa cosa. Una cosa che conosciamo tutti. Il gesto che ci segna fin dalla nascita: un bacio.


Oltre a questo tantissimi altri gesti, tantissime altre parole universalmente diffuse possono essere definite in molteplici modi.

Ogni esperienza infatti, che possiamo chiamare “territorio”, può essere interpretabile da ognuno di noi secondo la propria “mappa”. Per uno stesso territorio, possono esserci tante mappe diverse quante diverse interpretazioni che ognuno ha dato a una stessa esperienza.

Pensiamo concretamente a un territorio geografico, a una collocazione spaziale da dover raggiungere. C’è chi per farlo userà un navigatore , chi indicazioni schizzate a penna su un foglio di carta, chi le parole date da un passante incontrato lungo la strada e chi a mente cercherà di ricordare il percorso. Tutte queste sono diverse possibili mappe. Diverse mappe per lo stesso territorio, ognuna per ciascuna persona. Una mappa costruita negli anni, a seconda di quello che ciascuno ha imparato e provato. Per un territorio lavorativo qualcuno potrà leggere sulla sua mappa, soddisfazione, appagamento. Qualcun altro frustrazione. Così il “vado a lavoro” sarà seguito da un sorriso per qualcuno e da un leggero mal di stomaco per qualcun altro.

Ma cosa succede se due mappe diverse si trovano a interpretare uno stesso territorio? Cosa succede se due collaboratori, due amanti, due amici, due compagni di squadra, si trovano a confrontarsi su una stessa esperienza? Succederà che più le loro mappe saranno simili, più sarà facile per loro capirsi, comprendersi, essere d’accordo. Ma potrebbe succedere qualcosa di ancora meglio. Potrebbe succedere che le loro mappe siano molto diverse. Da due mappe uguali, si ricaverebbe sempre lo stesso numero di informazioni, ma due mappe diverse, due modi diversi di interpretare un’esperienza potrebbero dare l’opportunità a ciascuno di arricchire le proprie informazioni e di aggiungere dettagli alla propria mappa. Certo, bisognerebbe mettersi a tavolino, con le mappe o menti aperte che siano e raccontarsi come ognuno interpreta uno stesso territorio. Bisognerebbe prendere delle matite, dei pennarelli, dei pastelli o gesti che siano ed essere disposti a mettere dei nuovi segni sulla propria mappa, a cancellarne altri che si troveranno superati. E tutto questo, solo perché si ha avuto la fortuna di incontrare una mappa diversa, una persona diversa. E quando questo succede, è quasi sempre bene lasciare che le due persone si mischino le mappe tra di loro. Immaginate se arrivassero altre due, tre, quattro mappe a dire la loro! Ma alla fine della contaminazione tra mappe potrebbe accadere di trovarsi poi di fronte a un’esperienza comune come quella di un bacio. Bacio. Kiss. Baiser. Kuss. Oppure ancora, X, corrucciare le labbra, :*, strofinarsi i nasi. Tanti modi diversi per definire lo stesso territorio. E con una mappa così piena di informazioni, non potrà altro che essere un fantastico viaggio alla scoperta di tanti territori da interpretare…



Laura Grassi

La mappa delle esperienze

Bacio. Kiss. Baiser. Kuss. Oppure ancora, X, corrucciare le labbra, :*, strofinarsi i nasi. Tanti modi diversi per dire la stessa cosa. Una cosa che conosciamo tutti. Il gesto che ci segna fin dalla nascita: un bacio.


Oltre a questo tantissimi altri gesti, tantissime altre parole universalmente diffuse possono essere definite in molteplici modi.

Ogni esperienza infatti, che possiamo chiamare “territorio”, può essere interpretabile da ognuno di noi secondo la propria “mappa”. Per uno stesso territorio, possono esserci tante mappe diverse quante diverse interpretazioni che ognuno ha dato a una stessa esperienza.

Pensiamo concretamente a un territorio geografico, a una collocazione spaziale da dover raggiungere. C’è chi per farlo userà un navigatore , chi indicazioni schizzate a penna su un foglio di carta, chi le parole date da un passante incontrato lungo la strada e chi a mente cercherà di ricordare il percorso. Tutte queste sono diverse possibili mappe. Diverse mappe per lo stesso territorio, ognuna per ciascuna persona. Una mappa costruita negli anni, a seconda di quello che ciascuno ha imparato e provato. Per un territorio lavorativo qualcuno potrà leggere sulla sua mappa, soddisfazione, appagamento. Qualcun altro frustrazione. Così il “vado a lavoro” sarà seguito da un sorriso per qualcuno e da un leggero mal di stomaco per qualcun altro.

Ma cosa succede se due mappe diverse si trovano a interpretare uno stesso territorio? Cosa succede se due collaboratori, due amanti, due amici, due compagni di squadra, si trovano a confrontarsi su una stessa esperienza? Succederà che più le loro mappe saranno simili, più sarà facile per loro capirsi, comprendersi, essere d’accordo. Ma potrebbe succedere qualcosa di ancora meglio. Potrebbe succedere che le loro mappe siano molto diverse. Da due mappe uguali, si ricaverebbe sempre lo stesso numero di informazioni, ma due mappe diverse, due modi diversi di interpretare un’esperienza potrebbero dare l’opportunità a ciascuno di arricchire le proprie informazioni e di aggiungere dettagli alla propria mappa. Certo, bisognerebbe mettersi a tavolino, con le mappe o menti aperte che siano e raccontarsi come ognuno interpreta uno stesso territorio. Bisognerebbe prendere delle matite, dei pennarelli, dei pastelli o gesti che siano ed essere disposti a mettere dei nuovi segni sulla propria mappa, a cancellarne altri che si troveranno superati. E tutto questo, solo perché si ha avuto la fortuna di incontrare una mappa diversa, una persona diversa. E quando questo succede, è quasi sempre bene lasciare che le due persone si mischino le mappe tra di loro. Immaginate se arrivassero altre due, tre, quattro mappe a dire la loro! Ma alla fine della contaminazione tra mappe potrebbe accadere di trovarsi poi di fronte a un’esperienza comune come quella di un bacio. Bacio. Kiss. Baiser. Kuss. Oppure ancora, X, corrucciare le labbra, :*, strofinarsi i nasi. Tanti modi diversi per definire lo stesso territorio. E con una mappa così piena di informazioni, non potrà altro che essere un fantastico viaggio alla scoperta di tanti territori da interpretare…



Laura Grassi